lunes, 5 de diciembre de 2011

El sinvalor del trabajo

Perder el trabajo y no encontrar uno nuevo es una experiencia por la que pasan hoy millones de personas en España. En este país, el fenómeno de los “sin trabajo” está llegando al acabose. Había trabajo y no lo hay, ha desaparecido, se ha acabado. Es más, se ha esfumado. De pronto, pasó como si hubiéramos vivido una ilusión. El casi-pleno empleo vino a visitarnos, nos guiñó el ojo durante algunos años. Permitió que comprásemos casas y coches, que fuésemos al gimnasio a marcar tipo, que visitásemos lugares exóticos, que aspirásemos a viajar al espacio exterior.

Ahora, todo eso queda en manos de unos pocos. De aquellos que nunca esperaron un empleo porque nacieron empleados. Como papá, el abuelo, la bisabuela, la tatarabuela, nacieron empleados. Dedican su tiempo a contemplar como crece la simiente de la renta, mientras otros la plantan, la riegan, la podan y recogen el fruto. Ellos sólo tienen que apropiarse del producto final, la venta o el trueque del fruto, y disfrutar con un ace, un birdie, un passing shot.

Ellos, mientras tanto imparten el dogma y piden fe al resto de los mortales. Como sumos sacerdotes de cultos oscuros, manejan a su antojo la riqueza que producen los otros, los que nada tienen por origen y que, si consiguen algo, lo deben a su trabajo, esfuerzo, sudor y lágrimas. Pero a estos no les está permitido tener fe.

Estos solo tienen una salida: acabar con el dejar-hacer del que se aprovechan aquellos. Los precarios, los sin porvenir, los que pierden la fe en el presente y en el futuro, los que mensualmente contribuyen con buena parte de su salario a aportar recursos al Estado que luego son entregados de manera dispendiosa a los usureros y amasadores de fortuna, los que han contribuido durante años a crear un fondo que ahora solo les ofrece una pensión cada vez más reducida, las mujeres que han levantado familias de productores sin que su esfuerzo y dedicación sea reconocido… Todos ellos mantienen silenciosamente el sistema del dejar-hacer que disfrutan los otros.

domingo, 4 de diciembre de 2011

Pensar la revolución

En unos tiempos en los que lo público está en decadencia y, parecer ser, que lo estará más gracias a los gobiernos que disfrutamos, considero que tenemos la obligación de rearmarnos. Con esta finalidad, me parece muy útil socializar la introducción de Riccardo Petrella a su libro Res publica e beni comuni, pensare le rivoluzioni del XXI secolo. Creo que puede ayudar al rearme.
I beni comuni. Le due questioni di fondo.
Al centro del dibattito teorico e politico sui beni comuni nei paesi occidentali vi sono due questioni fondamentali.
La prima riguarda il principio/ruolo dello Stato (più precisamente, di governo e, quindi, di sovranità e di sicurezza). La seconda è relativa al principio di gratuità (della vita). I gruppi sociali dominanti hanno imposto il principio di “governance” ed hanno monetizzato la vita.
L’uso del concetto di “governance” risale alla seconda metà degli anni ’70 allorché l’economia occidentale si trovava alle prese con la rincollatura dei cocci del sistema finanziario andato in frantumi nel periodo 1971-73 (fine della convertibilità del dollaro in oro e dei tassi di cambio fissi, fine dei controlli sui movimenti di capitale, esplosione del mercato delle divise, liberalizzazione dei mercati, deregolamentazione e privatizzazione del settore…).
Per uscire dalle macerie, gli operatori finanziari, in primis gli istituti di credito e le società di notazione (“rating”), avevano bisogno di determinare i nuovi criteri quantificabili sulla base dei quali valutare le opportunità d’investimento, e soprattutto le operazioni di vendita/acquisto di pacchetti azionari (le famose OPA, fusioni d’imprese, prese di partecipazione…) in un contesto di grossi processi di ristrutturazione delle banche e delle assicurazioni a livello locale, nazionale ed internazionale.
La soluzione, per i gruppi dominanti, fu trovata nel principio “to increase the shareholder’s value”. Un’operazione finanziaria era giudicata buona in funzione del suo contributo alla ottimizzazione della crescita di ricchezza per i proprietari di capitali. Si cominciò quindi a  sostenere che i processi di ristrutturazione e di sviluppo del nuovo sistema finanziario procedevano in un buon contesto di “governance” ai vari livelli settoriali e territoriali, nella misura in cui il risultato globale era l’ottimizzazione del valore del capitale azionario. Non per nulla, successivamente, negli anni ’90, si cominciò a misurare l’importanza delle imprese e a stabilirne la graduatoria mondiale in funzione della loro capitalizzazione e non più del numero di occupati e/o del fatturato.
Dalla valutazione delle operazioni finanziarie, il criterio in esame fu rapidamente applicato alla valutazione della gestione generale di qualsiasi impresa (e non solo di quelle quotate in Borsa) e poi esteso alla gestione del settore industriale od economico, servizi pubblici compresi.
A partire dalla fine degli anni ’80, il principio “to increase the shareholder’s value” fu utilizzato (insieme al principio di competitività) per valutare ogni scelta economica, ivi comprese le scelte economiche e sociali di un governo, per terminare nel corso degli anni ’90 a valutare le scelte dell’intera società (onde la valenza generale del concetto di “governance” acquisita negli ultimi anni).
Per le classi dirigenti, il valore di una cosa, di un’impresa, di una strategia di sviluppo è ormai misurato in funzione del suo contributo alla creazione di valore per il capitale e per i suoi detentori. Ciò spiega, altresi, la relativa facilità con la quale anche i responsabili politici considerati tradizionalmente rappresentare le correnti di sinistra e progressiste, hanno aderito alla liberalizzazione delle istituzioni e dei servizi finanziari (inclusa la gestione dei fondi pensione e fondi malattia) e, poi, dell’insieme dei servizi pubblici detti locali, di prossimità, ed alla loro deregolamentazione e privatizzazione.
Questi passaggi sono stati resi possibili proprio per l’egemonia ideologica e culturale assunta dal concetto di “governance” nella teoria (e nella pratica) dello Stato e della società, come testimonia, già negli anni ’94-’95, la comunicazione della Commissione Europea, allora presieduta dal socialdemocratico/socialista francese Jacques Delors, sul tema della governance, nella quale la Commissione si schierava a favore dell’adozione del principo di governance. Fra le ragioni invocate, c’erano due postulati intrinsecamente mistificatori. Da un lato, quello della complessificazione crescente delle società che, a giudizio della Commissione, implicava l’abbandono dello Stato e della statualità quale luogo naturale e principale dei processi politici ed il loro allargamento a tutti i possibili “centri” di decisione politica definiti gli stakehorlders, cioè i portatori d’interesse. Dall’altro lato, il postulato della mondializzazione che, secondo i suoi sostenitori, implicava per la democrazia lo spostamento della decisione politica dagli Stati nazionali alla governance internazionale mondiale.
Fondandosi sui due postulati, la governance è stata definita come il nuovo sistema di organizzazione delle decisioni politiche a livello nazionale, internazionale e mondiale basata sull’incontro/dialogo/discussione tra tutti i portatori d’interesse rappresentativi delle varie componenti della società quali gli Stati, le imprese, i sindacati, i cittadini, le collettività locali, le “chiese”…
Secondo questa visione, la decisione politica è e deve essere il risultato di accordi e di partenariato tra i vari stakeholders in un contesto di libertà, di cooperazione/competizione, di autoregolazione e di responsabilità “sociale” auto-assunta. Il motore del nuovo sistema di organizzazione politica sta nell’ottimizzazione dell’utilità particolare di ogni stakeholder in termini monetari/finanziari in funzione dell’equazione costi/benefici ai prezzi di mercato. Un’equazione non fissata in maniera generale e per tutti, ma flessibile, variabile a seconda dei luoghi, degli stakehbolders in azione, dei tempi, dei settori. La governance non è orientata da un interesse generale, da una utilità collettiva, in funzione dei principi di giustizia, uguaglianza e solidarietà e della concretizzazione dei diritti umani e sociali. Il valore di un bene risulta dalle equazioni provvisorie e parziali che consentono di ottimizzare le utilità degli stakeholders.
In questo contesto, non c’è più spazio né funzione per i beni comuni pubblici.
In breve, il governo dell’impresa è stato assunto a modello da seguire per il governo dello Stato e della comunità mondiale.
Il risultato finale di questi spostamenti “tettonici” di natura teorica, ideologica, politica e sociale è stato molto dirompente:
- destatalizzazione del potere politico e destatualizzazione della politica. Lo Stato è ridotto ad uno fra i vari portatori d’interesse, il che fa saltare qualsiasi legittimità generale alla rappresentanza politica espressa dai parlamenti. Quest’ultimi non hanno più granchè da dire…
- privatizzazione del potere politico e sua contrattualizzazione “commerciale” tra soggetti portatori d’interessi particolari;
- la responsabilità scade a livello dell’autoregolazione e dell’autocontrollo per cui, per esempio, il politico inter-nazionale non è altro che un processo di negoziato permanente tra soggetti autoregolanti e autocertificanti: vedi il caso macroscopico e ridicolo della famosa “responsabilità sociale delle imprese“ e della loro “responsabilità ambientale” o, per quanto riguarda gli Stati, della limitazione spontanea delle emissioni di CO2 o della riduzione, altrettanto spontanea, degli armamenti.
La governance dell’educazione, la governance dei beni naturali, la governance del sistema della salute sono una pirateria strutturale, un’esproprio legalizzato dei beni comuni, della giustizia e della democrazia. È necessario ed urgente che coloro che difendono i beni comuni si battano per l’abbandono dell’uso del concetto di governance. Non farlo, in maniera chiara e determinata, significa diventare complici dei processi recenti di mercificazione dei beni comuni e della loro privatizzazione.
La monetizzazione al posto della gratuità
Quanto sopra è stato possibile perché si è imposto di pari passo, in una relazione reciproca di causa-effetto nell’ambito del crescente predominio della visione capitalista liberale della società e del mondo, il principio cosidetto della “verità del prezzo” (di mercato).
Fino a non molto tempo fa, il valore dei beni “naturali” indisponibili al mercato (le foreste primarie, la pioggia, le spiagge del mare) facenti parte intrinsecamente dei beni demaniali dello Stato (o dei Comuni, o delle Provincie), così come dei servizi considerati non-mercantili (quali l’educazione, la protezione civile, la salute, la difesa militare, le fognature, i musei…), era un valore di utilità sociale ed umana collettiva, per tutti. I costi sostenuti dalla collettività per la loro preservazione, produzione, manutenzione ed uso erano presi a carico dalla stessa collettività attraverso la spesa pubblica, finanziata dalla fiscalità generale e specifica. In alcuni casi, la collettività chiedeva ai singoli cittadini od a gruppi di cittadini il versamento di un contributo alla copertura dei costi chiamato tariffa, canone, “biglietto” (tariffa dei francobolli, biglietto dell’autobus o dei treni, canone per il raccordo alla rete elettrica, al gas urbano, alla radio..). Il contributo non aveva la finalità di coprire i costi. Questi restavano principalmente assicurati dalle finanze pubbliche.
Il principio di gratuità dei beni comuni non significa assenza di costi (“nessuno paga”!). Significa invece che i costi, molte volte particolarmente elevati (caso della difesa militare) sono presi a carico dalla collettività. La grande conquista sociale rappresentata dall’introduzione nei paesi europei della fiscalità generale redistributiva e progressiva sta proprio nel principio della gratuità dell’accesso e dell’uso dei beni essenziali ed insostituibili per la vita grazie alla copertura comune dei loro costi secondo i principi di giustizia, solidarietà e responsabilità.
Il principio di gratuità, in effetti, è strettamente legato a quelli di responsabilità e di partecipazione (fino ad alcuni anni fa, sotto forma indiretta, quella della rappresentanza democratica, attraverso le elezioni dei “deputati” a suffragio universale diretto). È questo principio che ha fatto della Danimarca (ed anche della Norvegia e della Svezia) la “buona società” occidentale del XX° secolo, modello per tutte le altre. Il sistema del Welfare in Danimarca, piuttosto unico ed originale, fu addirittura dissociato dal sistema del lavoro retribuito.
Il diritto alla vita decente e sociale era garantito a tutti, occupati o non. Da alcuni anni, la Danimarca non è più la società che è stata. Quel che ha reso e rende tuttora il principio di gratuità inaccettabile ai gruppi dominanti detentori di capitale privato è, per l’appunto, il fatto che essi debbano condividere una parte della loro ricchezza “prodotta” per “pagare” l’accesso all’acqua, alla salute, all’educazione degli altri, di quelli che non lavorano (perché, secondo i dominanti, “non vogliono” lavorare…), degli immigrati, degli illegali…
Il rigetto della copertura dei costi attraverso la fiscalità e le tariffe pubbliche nel caso dei servizi idrici, dell’accesso alla salute, dei trasporti collettivi… mentre, invece, si accetta il ricorso alla fiscalità per la copertura della difesa militare, si spiega assai facilmente. Nel mentre la difesa militare si traduce in produzione di beni e servizi che generano fonti importanti di reddito per i detentori di capitali (l’industria militare rende ricchi i privati nazionali ed internazionali), ciò non accade per la produzione di beni e servizi, per esempio, nel campo dell’educazione.
Un insegnante elementare o del secondario è considerato – per il capitale privato che paga le tasse – come un costo in assoluto. L’“industria scolastica” non rende ricchi i privati. Per questo l’economia capitalista parla dell’insegnamento elementare e secondario come di attività non produttive (il discorso é cambiato recentemente per quanto riguarda le università private specializzate e, più in generale, l’economia privata della conoscenza ad alto valore aggiunto). Lo stesso vale per la categoria dei burocrati pubblici (a differenza dei burocrati privati che “rendono” finanziaramente).
I discorsi e dibattiti sul “costo dei politici” o i “costi della politica” (cui hanno aderito attivamente anche i rappresentanti della sinistra e delle forze dette progressiste) è sintomatico, corrisponde in pieno all’ideologia della “governance”. Discreditare la funzione del politico ed il ruolo della politica pubblica ha funzionato in maniera efficace negli ultimi trent’anni.
La monetizzazione dei servizi un tempo pubblici in funzione dell’obiettivo della “verità dei prezzi” si fonda sull’applicazione mistificatrice della teoria dei costi.
Il caso della monetizzazione dell’acqua e dei servizi idrici costitutisce un esempio illuminante di una serie di mistificazioni legate alla teoria dei costi. L’acqua dei fiumi, delle falde, della pioggia, dicono i dominanti, è un bene comune e resta un bene comune, ma per garantire l’accesso all’acqua potabile c’è bisogno di tubi, di serbatoi, di stazioni di potabilizzazione, di laboratori di controllo della qualità, cioè ci sono dei costi. A chi spetta coprire i costi? I dominanti affermano: al consumatore, a colui che ne trae un’utilità particolare e personale dal consumo dell’acqua potabile in funzione dei suoi bisogni. Il consumatore, quindi, deve pagare un “prezzo dell’acqua” tale da consentire di recuperare tutti i costi di produzione, compresi i costi d’investimento a lungo termine, più un livello di profitto sufficiente per la remunerazione del “rischio” assunto dal capitale investito. Si tratta dell’applicazione del “full cost recovery principle”, un principio chiave dell’economia capitalista di mercato, fatto suo anche dall’Unione europea con la Direttiva Quadro sull’Acqua del 2000. È uno dei principi teorici alla base della “governance”.
Visto che il servizio idrico integrato è “naturalmente” e dappertutto gestito in situazione di monopolio e che, inoltre, ci sarà sempre la necessità vitale di utilizzo dell’acqua potabile, parlare di “ rischio capitalista” in questo campo è pura mistificazione.
Inoltre, i dominanti difendono la monetizzazione dei servizi pubblici d’interesse generale sostenendo che il prezzo di mercato è necessario per garantire l’autonomia finanziaria degli operatori del settore e sganciarli cosi dal finanziamento pubblico riducendo la spesa pubblica e quindi la pressione fiscale sul capitale privato, il che rappresenterebbe, secondo loro, un buon indicatore di una “governance” riuscita. Anche qui, la mistificazione è particolarmente grave. Non solo si sottrae l’accesso ad un bene/servizio essenziale per la vita (come nel caso dell’acqua) dal campo dei diritti, ma si afferma che i diritti umani e sociali hanno un prezzo di mercato e che essi si vendono e si comprano! La mercificazione della vita non poteva essere più esplicita.
Inoltre, ci si fa burla del cittadino. Non solo lo sganciamento del servizio pubblico dal finanziamento pubblico alleggerisce la responsabilità del contribuente ricco, ma addirittura lo scarico sul consumatore del finanziamento stesso si traduce nell’affidare al cittadino, ridotto a consumatore, il compito di finanziare la creazione di ricchezza per i detentori privati di capitale! Il che è assurdo, oltreché ridicolo: per avere accesso ad un bene/servizio che non sceglie, perché ne ha la necessità vitale, e che ad ogni modo la società/la comunità deve garantire, il “cittadino” di oggi deve contribuire all’aumento della ricchezza del capitale privato.
Infine, i dominanti sostengono che quel che il consumatore paga, per esempio per il prezzo dell’acqua, non è l’acqua ma i servizi resi. Quindi, non ci sarebbe alcuna privatizzazione e mercificazione dell’acqua. Tutt’al più, dicono, c’è mercificazione e privatizzazione dei servizi idrici. Se ciò fosse vero, il che non lo è, perché HERA pagherebbe per l’acquisto dell’acqua da Romagne Acque che gliela vende ad un prezzo dell’acqua grezza?
E di cosa si deve parlare se non di mercificazione e di privatizzazione dell’acqua allorché l’Acquedotto pugliese compra l’acqua da Lucania Acque e da Campania-Acque pagando dei prezzi dell’acqua grezza differenti a seconda della regione di vendita?
Il caso della monetizzazione dell’aria e delle foreste rappresenta un’altra forma di mistificazione. I gruppi dominanti hanno accettato nel 1992 che si parlasse di un “protocollo di lotta contro il cambio climatico” a condizione che i costi connessi alla riduzione delle emissioni dei gas ad effetto serra (GES) fossero coperti attraverso i meccanismi di mercato, in funzione della quantità consumata da ciascun paese, da ciascun settore e da ciascuna impresa rispetto alla quantità massima autorizzata. Così è nato il “protocollo di Kyoto”(1997) basato sul “mercato delle emissioni”: c’è chi compra la quantità di GES di cui ha “bisogno” e che supera quella autorizzata e chi vende la quantita di GES non emessa inferiore a quella autorizzata. Il “mercato dell’aria” è nato. I suoi fautori continuano a difenderlo solo per interesse ideologico ed economico (tutto deve essere mercato) anche se ormai è evidente che il meccanismo del prezzo delle emissioni produce effetti perversi che non gli hanno permesso di contribuire alla soluzione del problema. Come il prezzo mondiale del petrolio non ha risolto alcun problema energetico ed economico – è vero il contrario –, così il prezzo mondiale della tonnellata di CO2 non permetterà di risolvere il problema della lotta al riscaldamento dell’atmosfera terrestre. Pretenderlo è mistificazione da menzogna.
Lo stesso vale per la decisione presa nel 2002 a Johannesburg di monetizzare le foreste primarie. Queste non saranno salvate dalla traduzione in dollari od in euro od in yuan del loro valore, misurato in questo caso, in termini del loro contributo alla riduzione dei costi connessi alla lotta contro le emissioni di GES. A parte il fatto che le foreste primarie hanno un valore perché esistono e fanno parte del ciclo integrale della vita sul pianeta, non sarà per il fatto che le azioni dei loro proprietari figureranno istantaneamente sui principali indici borsi stici mondiali che esse saranno valorizzate, protette e conservate nell’interesse della vita del pianeta. Ha forse il prezzo borsistico del grano, del frumento, del riso contribuito ad un migliore governo di questi beni essenziali all’alimentazione della popolazione mondiale?
Certamente no. Così dicasi dei medicinali prodotti a partire dall’appropriazione privata da parte delle grandi compagnie chimiche e farmaceutiche multinazionali del capitale biotico esistente nelle foreste primarie. Nel caso del trattamento contro l’AIDS, la monetizzazione del capitale biotico ha soprattutto agevolato un prezzo esoso della triterapia impedendo cosi milioni di esseri umani affetti dall’AIDS di essere curati. La “verità del prezzo” di mercato applicata ai beni comuni pubblici è semplicemente un furto.
È tempo, quindi, di abbandonare la monetizzazione dei beni comuni pubblici e di reinventare sistemi basati sul principio di gratuità partendo da forme organizzate a livello locale (da qui l’importanza dell’economia di prossimità, dei circuiti corti) fino al livello mondiale (attraverso forme di transnazionalità e di transterritorialità che restano da immaginare, definire ed implementare).
Di nuovo, il principio di partecipazione dei cittadini e quello di responsabilità collettiva condivisa assumono un ruolo centrale determinante.
                                                      

viernes, 2 de diciembre de 2011

Ética y política, conflicto de intereses

[Notas ante conferencias y congresos de partidos de la izquierda española] 

¿La crisis económica es un problema? Ciertamente, pero no es “El Problema”. Hay algunos otros que son colaterales. En nuestro país (el grande y los pequeños), existe otro gran problema que es la falta de comunicación entre el Estado y la Sociedad, derivada sobre todo de un hecho: los partidos políticos, y sus líderes con ellos, no gozan del beneplácito generalizado de la población.

Cómo pueden lograr la aprobación de los ciudadanos si no existe un ejercicio libre de la función parlamentaria. Sus señorías, en lugar de obedecer a los votantes ante los que se comprometen con un programa, obedecen a los partidos y estos a sus jefes de filas, quienes, a su vez, responden a intereses muchas veces espurios. Incluso, en algunos casos, dichos jefes solo manifiestan un interés personal en su actuación (algunos consiguen lo que en términos coloquiales se llama “blindarse”).

El libre ejercicio de la función parlamentaria exige que los intereses personales, de partido o de clase, no prevalezcan frente a la función de representatividad que los parlamentarios tienen concedida. Por ello, cada vez es más necesario que se fijen condiciones de no elegibilidad y de incompatibilidad, que deben responder a principios éticos.

Evidentemente, para que ello sea posible hay que comenzar por cambiar la forma de organización de los partidos políticos. La que existe actualmente responde a una sociedad simple y nos encontramos en una sociedad compleja. Una sociedad a la cual no se le puede empezar por hablar de quién será el nuevo secretario general de un partido, y mucho menos airear las peleas por ver quién se hace con “el cargo” (no se habla de responsabilidad). No es esta la respuesta que se debe a los ciudadanos.

La sociedad no es la misma, ha llovido un poco y ha hecho mucho calor en los últimos años. El tejido social ha cambiado y, sin embargo, los partidos políticos continúan con sus viejos estereotipos. Como consecuencia, el orden político y social que se había construido con luchas y mucho esfuerzo se está convirtiendo en desorden social que pone en situación de riesgo al orden político. Este, para no morir, solo tiene una solución: que los partidos políticos de la izquierda dejen de llorar y mirarse el ombligo, y se pongan manos a la obra. Primero, manifestándose y practicando la ética, interna y públicamente; segundo, abriéndose a la sociedad y dejando entrar aire fresco en su organización y en su acción.