lunes, 5 de diciembre de 2011

El sinvalor del trabajo

Perder el trabajo y no encontrar uno nuevo es una experiencia por la que pasan hoy millones de personas en España. En este país, el fenómeno de los “sin trabajo” está llegando al acabose. Había trabajo y no lo hay, ha desaparecido, se ha acabado. Es más, se ha esfumado. De pronto, pasó como si hubiéramos vivido una ilusión. El casi-pleno empleo vino a visitarnos, nos guiñó el ojo durante algunos años. Permitió que comprásemos casas y coches, que fuésemos al gimnasio a marcar tipo, que visitásemos lugares exóticos, que aspirásemos a viajar al espacio exterior.

Ahora, todo eso queda en manos de unos pocos. De aquellos que nunca esperaron un empleo porque nacieron empleados. Como papá, el abuelo, la bisabuela, la tatarabuela, nacieron empleados. Dedican su tiempo a contemplar como crece la simiente de la renta, mientras otros la plantan, la riegan, la podan y recogen el fruto. Ellos sólo tienen que apropiarse del producto final, la venta o el trueque del fruto, y disfrutar con un ace, un birdie, un passing shot.

Ellos, mientras tanto imparten el dogma y piden fe al resto de los mortales. Como sumos sacerdotes de cultos oscuros, manejan a su antojo la riqueza que producen los otros, los que nada tienen por origen y que, si consiguen algo, lo deben a su trabajo, esfuerzo, sudor y lágrimas. Pero a estos no les está permitido tener fe.

Estos solo tienen una salida: acabar con el dejar-hacer del que se aprovechan aquellos. Los precarios, los sin porvenir, los que pierden la fe en el presente y en el futuro, los que mensualmente contribuyen con buena parte de su salario a aportar recursos al Estado que luego son entregados de manera dispendiosa a los usureros y amasadores de fortuna, los que han contribuido durante años a crear un fondo que ahora solo les ofrece una pensión cada vez más reducida, las mujeres que han levantado familias de productores sin que su esfuerzo y dedicación sea reconocido… Todos ellos mantienen silenciosamente el sistema del dejar-hacer que disfrutan los otros.

domingo, 4 de diciembre de 2011

Pensar la revolución

En unos tiempos en los que lo público está en decadencia y, parecer ser, que lo estará más gracias a los gobiernos que disfrutamos, considero que tenemos la obligación de rearmarnos. Con esta finalidad, me parece muy útil socializar la introducción de Riccardo Petrella a su libro Res publica e beni comuni, pensare le rivoluzioni del XXI secolo. Creo que puede ayudar al rearme.
I beni comuni. Le due questioni di fondo.
Al centro del dibattito teorico e politico sui beni comuni nei paesi occidentali vi sono due questioni fondamentali.
La prima riguarda il principio/ruolo dello Stato (più precisamente, di governo e, quindi, di sovranità e di sicurezza). La seconda è relativa al principio di gratuità (della vita). I gruppi sociali dominanti hanno imposto il principio di “governance” ed hanno monetizzato la vita.
L’uso del concetto di “governance” risale alla seconda metà degli anni ’70 allorché l’economia occidentale si trovava alle prese con la rincollatura dei cocci del sistema finanziario andato in frantumi nel periodo 1971-73 (fine della convertibilità del dollaro in oro e dei tassi di cambio fissi, fine dei controlli sui movimenti di capitale, esplosione del mercato delle divise, liberalizzazione dei mercati, deregolamentazione e privatizzazione del settore…).
Per uscire dalle macerie, gli operatori finanziari, in primis gli istituti di credito e le società di notazione (“rating”), avevano bisogno di determinare i nuovi criteri quantificabili sulla base dei quali valutare le opportunità d’investimento, e soprattutto le operazioni di vendita/acquisto di pacchetti azionari (le famose OPA, fusioni d’imprese, prese di partecipazione…) in un contesto di grossi processi di ristrutturazione delle banche e delle assicurazioni a livello locale, nazionale ed internazionale.
La soluzione, per i gruppi dominanti, fu trovata nel principio “to increase the shareholder’s value”. Un’operazione finanziaria era giudicata buona in funzione del suo contributo alla ottimizzazione della crescita di ricchezza per i proprietari di capitali. Si cominciò quindi a  sostenere che i processi di ristrutturazione e di sviluppo del nuovo sistema finanziario procedevano in un buon contesto di “governance” ai vari livelli settoriali e territoriali, nella misura in cui il risultato globale era l’ottimizzazione del valore del capitale azionario. Non per nulla, successivamente, negli anni ’90, si cominciò a misurare l’importanza delle imprese e a stabilirne la graduatoria mondiale in funzione della loro capitalizzazione e non più del numero di occupati e/o del fatturato.
Dalla valutazione delle operazioni finanziarie, il criterio in esame fu rapidamente applicato alla valutazione della gestione generale di qualsiasi impresa (e non solo di quelle quotate in Borsa) e poi esteso alla gestione del settore industriale od economico, servizi pubblici compresi.
A partire dalla fine degli anni ’80, il principio “to increase the shareholder’s value” fu utilizzato (insieme al principio di competitività) per valutare ogni scelta economica, ivi comprese le scelte economiche e sociali di un governo, per terminare nel corso degli anni ’90 a valutare le scelte dell’intera società (onde la valenza generale del concetto di “governance” acquisita negli ultimi anni).
Per le classi dirigenti, il valore di una cosa, di un’impresa, di una strategia di sviluppo è ormai misurato in funzione del suo contributo alla creazione di valore per il capitale e per i suoi detentori. Ciò spiega, altresi, la relativa facilità con la quale anche i responsabili politici considerati tradizionalmente rappresentare le correnti di sinistra e progressiste, hanno aderito alla liberalizzazione delle istituzioni e dei servizi finanziari (inclusa la gestione dei fondi pensione e fondi malattia) e, poi, dell’insieme dei servizi pubblici detti locali, di prossimità, ed alla loro deregolamentazione e privatizzazione.
Questi passaggi sono stati resi possibili proprio per l’egemonia ideologica e culturale assunta dal concetto di “governance” nella teoria (e nella pratica) dello Stato e della società, come testimonia, già negli anni ’94-’95, la comunicazione della Commissione Europea, allora presieduta dal socialdemocratico/socialista francese Jacques Delors, sul tema della governance, nella quale la Commissione si schierava a favore dell’adozione del principo di governance. Fra le ragioni invocate, c’erano due postulati intrinsecamente mistificatori. Da un lato, quello della complessificazione crescente delle società che, a giudizio della Commissione, implicava l’abbandono dello Stato e della statualità quale luogo naturale e principale dei processi politici ed il loro allargamento a tutti i possibili “centri” di decisione politica definiti gli stakehorlders, cioè i portatori d’interesse. Dall’altro lato, il postulato della mondializzazione che, secondo i suoi sostenitori, implicava per la democrazia lo spostamento della decisione politica dagli Stati nazionali alla governance internazionale mondiale.
Fondandosi sui due postulati, la governance è stata definita come il nuovo sistema di organizzazione delle decisioni politiche a livello nazionale, internazionale e mondiale basata sull’incontro/dialogo/discussione tra tutti i portatori d’interesse rappresentativi delle varie componenti della società quali gli Stati, le imprese, i sindacati, i cittadini, le collettività locali, le “chiese”…
Secondo questa visione, la decisione politica è e deve essere il risultato di accordi e di partenariato tra i vari stakeholders in un contesto di libertà, di cooperazione/competizione, di autoregolazione e di responsabilità “sociale” auto-assunta. Il motore del nuovo sistema di organizzazione politica sta nell’ottimizzazione dell’utilità particolare di ogni stakeholder in termini monetari/finanziari in funzione dell’equazione costi/benefici ai prezzi di mercato. Un’equazione non fissata in maniera generale e per tutti, ma flessibile, variabile a seconda dei luoghi, degli stakehbolders in azione, dei tempi, dei settori. La governance non è orientata da un interesse generale, da una utilità collettiva, in funzione dei principi di giustizia, uguaglianza e solidarietà e della concretizzazione dei diritti umani e sociali. Il valore di un bene risulta dalle equazioni provvisorie e parziali che consentono di ottimizzare le utilità degli stakeholders.
In questo contesto, non c’è più spazio né funzione per i beni comuni pubblici.
In breve, il governo dell’impresa è stato assunto a modello da seguire per il governo dello Stato e della comunità mondiale.
Il risultato finale di questi spostamenti “tettonici” di natura teorica, ideologica, politica e sociale è stato molto dirompente:
- destatalizzazione del potere politico e destatualizzazione della politica. Lo Stato è ridotto ad uno fra i vari portatori d’interesse, il che fa saltare qualsiasi legittimità generale alla rappresentanza politica espressa dai parlamenti. Quest’ultimi non hanno più granchè da dire…
- privatizzazione del potere politico e sua contrattualizzazione “commerciale” tra soggetti portatori d’interessi particolari;
- la responsabilità scade a livello dell’autoregolazione e dell’autocontrollo per cui, per esempio, il politico inter-nazionale non è altro che un processo di negoziato permanente tra soggetti autoregolanti e autocertificanti: vedi il caso macroscopico e ridicolo della famosa “responsabilità sociale delle imprese“ e della loro “responsabilità ambientale” o, per quanto riguarda gli Stati, della limitazione spontanea delle emissioni di CO2 o della riduzione, altrettanto spontanea, degli armamenti.
La governance dell’educazione, la governance dei beni naturali, la governance del sistema della salute sono una pirateria strutturale, un’esproprio legalizzato dei beni comuni, della giustizia e della democrazia. È necessario ed urgente che coloro che difendono i beni comuni si battano per l’abbandono dell’uso del concetto di governance. Non farlo, in maniera chiara e determinata, significa diventare complici dei processi recenti di mercificazione dei beni comuni e della loro privatizzazione.
La monetizzazione al posto della gratuità
Quanto sopra è stato possibile perché si è imposto di pari passo, in una relazione reciproca di causa-effetto nell’ambito del crescente predominio della visione capitalista liberale della società e del mondo, il principio cosidetto della “verità del prezzo” (di mercato).
Fino a non molto tempo fa, il valore dei beni “naturali” indisponibili al mercato (le foreste primarie, la pioggia, le spiagge del mare) facenti parte intrinsecamente dei beni demaniali dello Stato (o dei Comuni, o delle Provincie), così come dei servizi considerati non-mercantili (quali l’educazione, la protezione civile, la salute, la difesa militare, le fognature, i musei…), era un valore di utilità sociale ed umana collettiva, per tutti. I costi sostenuti dalla collettività per la loro preservazione, produzione, manutenzione ed uso erano presi a carico dalla stessa collettività attraverso la spesa pubblica, finanziata dalla fiscalità generale e specifica. In alcuni casi, la collettività chiedeva ai singoli cittadini od a gruppi di cittadini il versamento di un contributo alla copertura dei costi chiamato tariffa, canone, “biglietto” (tariffa dei francobolli, biglietto dell’autobus o dei treni, canone per il raccordo alla rete elettrica, al gas urbano, alla radio..). Il contributo non aveva la finalità di coprire i costi. Questi restavano principalmente assicurati dalle finanze pubbliche.
Il principio di gratuità dei beni comuni non significa assenza di costi (“nessuno paga”!). Significa invece che i costi, molte volte particolarmente elevati (caso della difesa militare) sono presi a carico dalla collettività. La grande conquista sociale rappresentata dall’introduzione nei paesi europei della fiscalità generale redistributiva e progressiva sta proprio nel principio della gratuità dell’accesso e dell’uso dei beni essenziali ed insostituibili per la vita grazie alla copertura comune dei loro costi secondo i principi di giustizia, solidarietà e responsabilità.
Il principio di gratuità, in effetti, è strettamente legato a quelli di responsabilità e di partecipazione (fino ad alcuni anni fa, sotto forma indiretta, quella della rappresentanza democratica, attraverso le elezioni dei “deputati” a suffragio universale diretto). È questo principio che ha fatto della Danimarca (ed anche della Norvegia e della Svezia) la “buona società” occidentale del XX° secolo, modello per tutte le altre. Il sistema del Welfare in Danimarca, piuttosto unico ed originale, fu addirittura dissociato dal sistema del lavoro retribuito.
Il diritto alla vita decente e sociale era garantito a tutti, occupati o non. Da alcuni anni, la Danimarca non è più la società che è stata. Quel che ha reso e rende tuttora il principio di gratuità inaccettabile ai gruppi dominanti detentori di capitale privato è, per l’appunto, il fatto che essi debbano condividere una parte della loro ricchezza “prodotta” per “pagare” l’accesso all’acqua, alla salute, all’educazione degli altri, di quelli che non lavorano (perché, secondo i dominanti, “non vogliono” lavorare…), degli immigrati, degli illegali…
Il rigetto della copertura dei costi attraverso la fiscalità e le tariffe pubbliche nel caso dei servizi idrici, dell’accesso alla salute, dei trasporti collettivi… mentre, invece, si accetta il ricorso alla fiscalità per la copertura della difesa militare, si spiega assai facilmente. Nel mentre la difesa militare si traduce in produzione di beni e servizi che generano fonti importanti di reddito per i detentori di capitali (l’industria militare rende ricchi i privati nazionali ed internazionali), ciò non accade per la produzione di beni e servizi, per esempio, nel campo dell’educazione.
Un insegnante elementare o del secondario è considerato – per il capitale privato che paga le tasse – come un costo in assoluto. L’“industria scolastica” non rende ricchi i privati. Per questo l’economia capitalista parla dell’insegnamento elementare e secondario come di attività non produttive (il discorso é cambiato recentemente per quanto riguarda le università private specializzate e, più in generale, l’economia privata della conoscenza ad alto valore aggiunto). Lo stesso vale per la categoria dei burocrati pubblici (a differenza dei burocrati privati che “rendono” finanziaramente).
I discorsi e dibattiti sul “costo dei politici” o i “costi della politica” (cui hanno aderito attivamente anche i rappresentanti della sinistra e delle forze dette progressiste) è sintomatico, corrisponde in pieno all’ideologia della “governance”. Discreditare la funzione del politico ed il ruolo della politica pubblica ha funzionato in maniera efficace negli ultimi trent’anni.
La monetizzazione dei servizi un tempo pubblici in funzione dell’obiettivo della “verità dei prezzi” si fonda sull’applicazione mistificatrice della teoria dei costi.
Il caso della monetizzazione dell’acqua e dei servizi idrici costitutisce un esempio illuminante di una serie di mistificazioni legate alla teoria dei costi. L’acqua dei fiumi, delle falde, della pioggia, dicono i dominanti, è un bene comune e resta un bene comune, ma per garantire l’accesso all’acqua potabile c’è bisogno di tubi, di serbatoi, di stazioni di potabilizzazione, di laboratori di controllo della qualità, cioè ci sono dei costi. A chi spetta coprire i costi? I dominanti affermano: al consumatore, a colui che ne trae un’utilità particolare e personale dal consumo dell’acqua potabile in funzione dei suoi bisogni. Il consumatore, quindi, deve pagare un “prezzo dell’acqua” tale da consentire di recuperare tutti i costi di produzione, compresi i costi d’investimento a lungo termine, più un livello di profitto sufficiente per la remunerazione del “rischio” assunto dal capitale investito. Si tratta dell’applicazione del “full cost recovery principle”, un principio chiave dell’economia capitalista di mercato, fatto suo anche dall’Unione europea con la Direttiva Quadro sull’Acqua del 2000. È uno dei principi teorici alla base della “governance”.
Visto che il servizio idrico integrato è “naturalmente” e dappertutto gestito in situazione di monopolio e che, inoltre, ci sarà sempre la necessità vitale di utilizzo dell’acqua potabile, parlare di “ rischio capitalista” in questo campo è pura mistificazione.
Inoltre, i dominanti difendono la monetizzazione dei servizi pubblici d’interesse generale sostenendo che il prezzo di mercato è necessario per garantire l’autonomia finanziaria degli operatori del settore e sganciarli cosi dal finanziamento pubblico riducendo la spesa pubblica e quindi la pressione fiscale sul capitale privato, il che rappresenterebbe, secondo loro, un buon indicatore di una “governance” riuscita. Anche qui, la mistificazione è particolarmente grave. Non solo si sottrae l’accesso ad un bene/servizio essenziale per la vita (come nel caso dell’acqua) dal campo dei diritti, ma si afferma che i diritti umani e sociali hanno un prezzo di mercato e che essi si vendono e si comprano! La mercificazione della vita non poteva essere più esplicita.
Inoltre, ci si fa burla del cittadino. Non solo lo sganciamento del servizio pubblico dal finanziamento pubblico alleggerisce la responsabilità del contribuente ricco, ma addirittura lo scarico sul consumatore del finanziamento stesso si traduce nell’affidare al cittadino, ridotto a consumatore, il compito di finanziare la creazione di ricchezza per i detentori privati di capitale! Il che è assurdo, oltreché ridicolo: per avere accesso ad un bene/servizio che non sceglie, perché ne ha la necessità vitale, e che ad ogni modo la società/la comunità deve garantire, il “cittadino” di oggi deve contribuire all’aumento della ricchezza del capitale privato.
Infine, i dominanti sostengono che quel che il consumatore paga, per esempio per il prezzo dell’acqua, non è l’acqua ma i servizi resi. Quindi, non ci sarebbe alcuna privatizzazione e mercificazione dell’acqua. Tutt’al più, dicono, c’è mercificazione e privatizzazione dei servizi idrici. Se ciò fosse vero, il che non lo è, perché HERA pagherebbe per l’acquisto dell’acqua da Romagne Acque che gliela vende ad un prezzo dell’acqua grezza?
E di cosa si deve parlare se non di mercificazione e di privatizzazione dell’acqua allorché l’Acquedotto pugliese compra l’acqua da Lucania Acque e da Campania-Acque pagando dei prezzi dell’acqua grezza differenti a seconda della regione di vendita?
Il caso della monetizzazione dell’aria e delle foreste rappresenta un’altra forma di mistificazione. I gruppi dominanti hanno accettato nel 1992 che si parlasse di un “protocollo di lotta contro il cambio climatico” a condizione che i costi connessi alla riduzione delle emissioni dei gas ad effetto serra (GES) fossero coperti attraverso i meccanismi di mercato, in funzione della quantità consumata da ciascun paese, da ciascun settore e da ciascuna impresa rispetto alla quantità massima autorizzata. Così è nato il “protocollo di Kyoto”(1997) basato sul “mercato delle emissioni”: c’è chi compra la quantità di GES di cui ha “bisogno” e che supera quella autorizzata e chi vende la quantita di GES non emessa inferiore a quella autorizzata. Il “mercato dell’aria” è nato. I suoi fautori continuano a difenderlo solo per interesse ideologico ed economico (tutto deve essere mercato) anche se ormai è evidente che il meccanismo del prezzo delle emissioni produce effetti perversi che non gli hanno permesso di contribuire alla soluzione del problema. Come il prezzo mondiale del petrolio non ha risolto alcun problema energetico ed economico – è vero il contrario –, così il prezzo mondiale della tonnellata di CO2 non permetterà di risolvere il problema della lotta al riscaldamento dell’atmosfera terrestre. Pretenderlo è mistificazione da menzogna.
Lo stesso vale per la decisione presa nel 2002 a Johannesburg di monetizzare le foreste primarie. Queste non saranno salvate dalla traduzione in dollari od in euro od in yuan del loro valore, misurato in questo caso, in termini del loro contributo alla riduzione dei costi connessi alla lotta contro le emissioni di GES. A parte il fatto che le foreste primarie hanno un valore perché esistono e fanno parte del ciclo integrale della vita sul pianeta, non sarà per il fatto che le azioni dei loro proprietari figureranno istantaneamente sui principali indici borsi stici mondiali che esse saranno valorizzate, protette e conservate nell’interesse della vita del pianeta. Ha forse il prezzo borsistico del grano, del frumento, del riso contribuito ad un migliore governo di questi beni essenziali all’alimentazione della popolazione mondiale?
Certamente no. Così dicasi dei medicinali prodotti a partire dall’appropriazione privata da parte delle grandi compagnie chimiche e farmaceutiche multinazionali del capitale biotico esistente nelle foreste primarie. Nel caso del trattamento contro l’AIDS, la monetizzazione del capitale biotico ha soprattutto agevolato un prezzo esoso della triterapia impedendo cosi milioni di esseri umani affetti dall’AIDS di essere curati. La “verità del prezzo” di mercato applicata ai beni comuni pubblici è semplicemente un furto.
È tempo, quindi, di abbandonare la monetizzazione dei beni comuni pubblici e di reinventare sistemi basati sul principio di gratuità partendo da forme organizzate a livello locale (da qui l’importanza dell’economia di prossimità, dei circuiti corti) fino al livello mondiale (attraverso forme di transnazionalità e di transterritorialità che restano da immaginare, definire ed implementare).
Di nuovo, il principio di partecipazione dei cittadini e quello di responsabilità collettiva condivisa assumono un ruolo centrale determinante.
                                                      

viernes, 2 de diciembre de 2011

Ética y política, conflicto de intereses

[Notas ante conferencias y congresos de partidos de la izquierda española] 

¿La crisis económica es un problema? Ciertamente, pero no es “El Problema”. Hay algunos otros que son colaterales. En nuestro país (el grande y los pequeños), existe otro gran problema que es la falta de comunicación entre el Estado y la Sociedad, derivada sobre todo de un hecho: los partidos políticos, y sus líderes con ellos, no gozan del beneplácito generalizado de la población.

Cómo pueden lograr la aprobación de los ciudadanos si no existe un ejercicio libre de la función parlamentaria. Sus señorías, en lugar de obedecer a los votantes ante los que se comprometen con un programa, obedecen a los partidos y estos a sus jefes de filas, quienes, a su vez, responden a intereses muchas veces espurios. Incluso, en algunos casos, dichos jefes solo manifiestan un interés personal en su actuación (algunos consiguen lo que en términos coloquiales se llama “blindarse”).

El libre ejercicio de la función parlamentaria exige que los intereses personales, de partido o de clase, no prevalezcan frente a la función de representatividad que los parlamentarios tienen concedida. Por ello, cada vez es más necesario que se fijen condiciones de no elegibilidad y de incompatibilidad, que deben responder a principios éticos.

Evidentemente, para que ello sea posible hay que comenzar por cambiar la forma de organización de los partidos políticos. La que existe actualmente responde a una sociedad simple y nos encontramos en una sociedad compleja. Una sociedad a la cual no se le puede empezar por hablar de quién será el nuevo secretario general de un partido, y mucho menos airear las peleas por ver quién se hace con “el cargo” (no se habla de responsabilidad). No es esta la respuesta que se debe a los ciudadanos.

La sociedad no es la misma, ha llovido un poco y ha hecho mucho calor en los últimos años. El tejido social ha cambiado y, sin embargo, los partidos políticos continúan con sus viejos estereotipos. Como consecuencia, el orden político y social que se había construido con luchas y mucho esfuerzo se está convirtiendo en desorden social que pone en situación de riesgo al orden político. Este, para no morir, solo tiene una solución: que los partidos políticos de la izquierda dejen de llorar y mirarse el ombligo, y se pongan manos a la obra. Primero, manifestándose y practicando la ética, interna y públicamente; segundo, abriéndose a la sociedad y dejando entrar aire fresco en su organización y en su acción.

lunes, 14 de noviembre de 2011

¿Dónde está la raíz del mal?

 “Si se pone en peligro la libertad,
la propiedad se deslegitima
y la causa de la destrucción de la libertad
es la abismal desigualdad económica,
‘la fuente de todos los males’”
(Maximilien Robespierre)

“La actual economía neorentista, cuyos orígenes se remontan a las secuelas de la Primera Guerra Mundial, cuando los créditos hipotecarios comenzaron a moverse en el terreno económico de la industria y el comercio, y que luego quedó reforzada por la ideología de la Guerra Fría contra los trabajadores, podría describirse como una forma neofeudal de servidumbre por deudas, tanto en términos económicos como porque propugna los valores de la preilustración. Incluso el calificativo «neoliberal» es engañoso porque en realidad, los verdaderos economistas «liberales», como John Stuart Mill, por ejemplo, intentaron mantener un equilibrio adecuado entre los precios y los costes y proteger los mercados de los intereses rentistas y del capitalismo salvaje.

Un fenómeno funesto conocido como «las finanzas» se ha adueñado de la esfera económica, de la industria, de los bienes inmobiliarios y de los propios gobiernos. Se considera una fuerza autónoma que hace dinero por sí sola. Esto implica sigilo, falta de responsabilidad y la conquista ideológica, centrada sobre todo en una idea distorsionada, desquiciada, de la «libertad». Para los financieros, la «libertad» de especular implica «liberar» el mercado de obstáculos (como los derechos humanos) que puedan interponerse en el camino del comercio y el lucro. La prosperidad financiera, construida en realidad sobre la deuda en términos de los medios de producción y de los ingresos de toda la sociedad, se presenta como un sector visible y productivo de la economía real, aunque lo único visible de esta «riqueza» sean las cifras que parpadean febrilmente en las pantallas de las bolsas. La situación ideal del banquero es una economía que se capitaliza en su totalidad: cuando los excedentes económicos no se reinvierten en actividad productiva sino que se abonan como intereses (a ellos o a los financieros)”. (Julie Wark (2011), Manifiesto de derechos humanos, Ediciones Barataria. Colección Documentos)

domingo, 13 de noviembre de 2011

Aviso póstumo: el golpe de estado está en el orden del día

¿Cómo se le pudo ocurrir a Papandreu, primer ministro elegido democráticamente, contravenir los deseos del dúo estático formado por la canciller alemana y el presidente francés? ¿Apelando al pueblo? El pueblo está formado por patanes que desconocen el verdadero valor de “la cosa”. ¿Qué puede saber un pueblo que llevaba cinco años de “crecimiento negativo” – maldito diccionario conceptual de términos económico/financieros-? Ante reflexiones de tan hondo calado, el primer ministro griego retiró el referéndum. La democracia, siempre dispuesta a utilizar las bombas allí donde haga falta (Irak, antes, y Libia, recientemente), no tiene valor alguno cuando se trata de dinero. Ante el dinero, la democracia es una opcionalidad.

¿Cómo puede intentar mantenerse en el poder un personaje de catadura tal como Berlusconi? Durante años, lo ha hecho y ha sido agasajado, besado, abrazado, bendecido, pese a su persistente persecución de los medios de comunicación no afines, a su pregonada pederastia, a su capacidad (compra de votos) para adecuar las leyes a su medida e interés particular… ¿Cómo se atreve a enfrentarse al poder del dinero? Lo que el pueblo italiano ha sido incapaz de hacer en las urnas lo ha hecho expeditivamente el poder del dinero. El pueblo italiano ha celebrado la caída del monstruo sin darse cuenta de que ha sido gracias a un golpe de estado plutocrático. Ante el dinero, la democracia es una opcionalidad.

Uno de los mayores daños que los llamados líderes europeos están haciendo a la sociedad es el hurto de la política. La democracia es diariamente prostituida  – substitución de presidentes de gobierno sin pasar por las urnas-, las reglas mínimas de la convivencia civil son violadas, el interés individual – banca y finanzas - sustituye al bien público, el debate político es eliminado. El contraste de ideas y de proyectos para el futuro ha sido sustituido por la “profundización” sobre la prima de riesgo, el valor de mercado, los bonos basura, los puntos básicos, el diferencial de deuda… No se debate sobre economía doméstica, escuela, trabajo, cultura, riqueza, pobreza, igualdad, inclusión…

Los europeos corremos el riesgo de situarnos fuera de la democracia y de la civilidad. 

sábado, 12 de noviembre de 2011

Aviso preventivo

Supongamos que, como todos los vaticinios dan por hecho, el partido popular gana las próximas elecciones. Pues bien, aviso preventivamente que dicho partido no solucionará ninguno de los problemas a los que nos enfrentamos actualmente, ni los que quedan por venir. Es más, aumentará nuestras angustias.

El partido popular hará el trabajo sucio a las órdenes del Banco Central europeo (es decir, de Ángela Merkel) y del Fondo Monetario Internacional. El partido popular no salvará la patria – esa con la que se llena la boca -; será el verdugo de la gente pobre, de la gente con hipoteca, de los pensionistas y de los parados; será el liquidador de derechos civiles e incluso de derechos humanos; será el facilitador (aún más) del despido libre y del trabajo al servicio de lo público... El partido popular propulsará hacia el infinito a los privilegiados sociales y económicos. La clase financiera, esa que ha provocado la vorágine en la que estamos metidos, será su principal sustento. Y recibirá todas las bendiciones de una iglesia católica que siempre aspira a transformar la democracia en una plutocracia confesional.

Aviso preventivamente que, ante el panorama que se avecina después de las elecciones, sólo hay una vía de salvación: que la izquierda (un amigo dice que me obstino en llamarla izquierda por padecer un permanente lapsus freudiano) se articule y presente una alternativa única: un plan de acción basado en la defensa de la ética y de lo público; un plan de acción en el que impere el trabajo como principal valor económico y social. [Evidentemente, mejor después de haberse purgado por los errores cometidos].

jueves, 3 de noviembre de 2011

Es una cuestión de lucha de clases


Ahora ya, pero, a partir del próximo 20 de Noviembre más, la cuestión será una lucha de clases, dirigida, en primer lugar, contra las personas en situación precaria, contra los despidos, contra el bien (los bienes) común, contra los derechos sociales, políticos y laborales, contra los intereses generales. De hecho, será una vuelta a la “actividad terrorista”, por activa o por pasiva. Será el uso irresponsable de la ley y de la norma contra los más débiles, contra la mayoría a la cual utilizan como escusa. Será la puesta en práctica de una política de la desesperación y de la falta de perspectiva. Será la contrarevolución: hacer a los ricos más ricos y a los pobres, más pobres. Será el “cuanto peor, mejor para nosotros y los nuestros”.

Los grandes patrimonios estarán exentos de imposición –comenzando por los suyos propios-; las transacciones entre “mafiosos” (banqueros, especuladores, constructores del pelotazo…) tendrán las manos libres. ¿Y los empresarios? Estos tendrán más fácil el despido y el convertir en más precarios a los precarios actuales. La disputa entre lo viejo y lo nuevo no tendrá color: lo viejo, caduco, antisocial, clerical, confesional, triunfará.

Será papel mojado el principio de igualdad consagrado en la Constitución. Toda esperanza de “vínculo republicano” será descartada. Los principios de dignidad, solidaridad, de igualdad de oportunidades, serán aniquilados.

La única alternativa deberá fundamentarse en el principio de transparencia, de libertad; tendrá que incluir un proyecto de lucha de clases, contra élites y grupos de presión, contra la desigualdad social, por la redistribución de la igualdad de oportunidades y de la riqueza, entendida en sentido amplio (salarios, sanidad, educación, cultura…); contra la insolidaridad, entre los “propios” y los vecinos de afuera. 

viernes, 14 de octubre de 2011

La orientación, clave para el desarrollo formativo y profesional

Recientemente, la consultora Élogos ha hecho público un estudio titulado Estrategias y alternativas de la formación profesional para el empleo y la incorporación delos jóvenes a la vida laboral, financiado por el Ministerio de Trabajo e Inmigración y la Fundación Tripartita para la Formación en el Empleo. En el capítulo de conclusiones y propuestas, el informe del estudio incluye un apartado sobre “Actuaciones en el ámbito educativo. 1. Potenciar la orientación profesional”. No intento sacar pecho al afirmar que el contenido de esta propuesta contiene aportaciones muy similares a las que realicé en un artículo publicado en la revista “Escuela” (octubre de 2009) titulado La orientación, clave para el desarrollo formativo y profesional. Sin embargo, el estudio de Élogos me da pie para realizar ahora algunas nuevas aportaciones como añadido a sus conclusiones y a mi viejo artículo.

I.    “Las fuerzas”

Actualmente, podemos observar diferentes “fuerzas de presión” que actúan sobre las instituciones de formación. Por ejemplo:
·  La mundialización de los mercados que implica, entre otras cosas, una difusión y penetración de ideas que, sean de la naturaleza que fueren, se difunden a lo largo y ancho del mundo.
·    La competición (la competencia, no es tan claro) entre entidades que trabajan en el ámbito de la formación.
Esta competición está interesada en que las instituciones educativo-formativas preparen futuros profesionales o técnicos muy competentes y capaces de encontrar un sitio en un mercado de trabajo internacional, también competitivo. Es decir, asistimos a 1) una internacionalización de los contextos de formación y de trabajo – movilidad de la mano de obra y reconocimiento internacional de competencias (títulos)-; 2) unos cambios tecnológicos que facilitan la transmisión rápida de nuevas ideas y ofrecen la posibilidad de realizar actividades complejas a un coste/beneficio “interesante” – nuevas competencias, nuevos empleos y bases de datos en las que figuran todas ellas -; 3) el aumento exponencial de los conocimientos que pone en cuestión los aprendizajes y la manera de adquirirlos. A medida que los conocimientos se renuevan con rapidez, se pone en evidencia que todo tipo de formación debe fundamentarse en el desarrollo de competencias, es decir, en la capacidad de las personas en formación para resolver problemas concretos.

Además de las fuerzas de presión mencionadas, hemos de hacer referencia también a “fuerzas interactivas” – me permito aplicar un término tal vez no demasiado adecuado -. Por ejemplo, 1) los cambios demográficos, caracterizados por las migraciones y una nueva configuración del tejido social; 2) la alta tasa de abandono y “fracaso” escolar; 3) la ausencia de proyecto de futuro y la ambivalencia vital de muchos jóvenes; 4) el aún bajo número de jóvenes que realizan estudios de formación profesional y técnica (característica muy española, aunque no sólo); 5) el gran número de jóvenes que, al final de la secundaria, no tiene idea precisa sobre qué hacer o estudiar; 6) el perenne sexismo en la elección de estudios y profesiones.

Al lado de – o frente a – estas fuerzas de presión e interactivas, hay algunas “fuerzas cooperadoras” – que deberían cooperar - que las instituciones de formación y orientación pueden facilitar: a) la velocidad de la comunicación, que puede ser una “fuerza de presión” que aporte ventajas, como proveer información sobre nuevos saberes, conocimientos, competencias; b) la contribución a cristalizar la personalidad desde edad temprana; c) la exploración, mediante actividades didácticas, de las relaciones entre lo que se aprende y las exigencias del mundo de las relaciones sociales y del trabajo.

II.       “La movilización”

En mi referido viejo artículo acababa diciendo: “Complementariamente, es cada vez más urgente establecer una coordinación de los diferentes dispositivos de información, análisis, orientación, intermediación y sobre riesgos laborales que existen en los diferentes territorios y dependientes de diferentes administraciones –de nivel diverso-, así como de las organizaciones sindicales y empresariales”. Todos ellos cooperadores necesarios.

Considero que, dadas las fuerzas en presencia, la orientación debe ir más allá de los muros de la escuela y necesita, para ser útil – ya no diré eficaz y eficiente -, acompañar a los jóvenes, desde edad temprana, y a los mayores en su periplo educativo-formativo, social y laboral. Por ello, la orientación no puede considerarse solo como un instrumento en manos del sistema educativo, sino que debe ser una herramienta que:
·      Constituya un componente de la cultura educativa y de la cultura laboral.
·     Tenga un enfoque holístico, de descubrimiento, autoconocimiento y capacitación.
·  Ilumine y desdramatice las elecciones personales en un contexto de asistencia individualizada para que cada persona sea actor de la propia madura decisión.
·   Forme parte de un proceso a largo plazo, continuo y progresivo, que contribuya a preparar y gestionar las transiciones (dentro de la escuela, escuela-trabajo, empleo-desempleo-empleo, mejora de competencias, jubilación).

Ello supone situar la orientación en el centro de las acciones destinadas a educar-formar a las personas y supone, asimismo, que la orientación sea considerada un derecho de las mismas, como parte clave del proyecto personal y del propio proceso de enseñanza-aprendizaje y de adquisición de competencias.

Se trata, pues, de poner en funcionamiento – movilizar – un sistema global de orientación, que, de manera lineal y transversal, desarrolle acciones en el ámbito escolar y en el laboral. El sistema debería favorecer la construcción progresiva de itinerarios individuales y garantizar la “vuelta atrás” de las decisiones/elecciones, mediante la utilización de un dispositivo de acompañamiento personalizado, a fin de facilitar la reorientación y de favorecer el uso de pasarelas. El sistema debería también ayudar a la preparación y la gestión de las transiciones, reforzando las relaciones entre los diferentes niveles educativos y de estos con el mundo laboral, así como en el interior del mismo.

Evidentemente, un sistema así articulado exigiría la clarificación del papel que deben jugar los diferentes actores (enseñantes, educadores, orientadores, asesores personales…), así como la definición de la complementariedad entre unos y otros. Todos ellos deberían ser ayudados por una política de formación que contribuyese a reforzar sus competencias en materia de ingeniería de la orientación.

lunes, 12 de septiembre de 2011

La apropiación indebida de las palabras

Οι λέξεις είναι όπως παλιά πόρνες που ο καθένας χρησιμοποιεί, αλλά λάθος.
“Las palabras son como las prostitutas viejas que todos usan, pero mal”
(Giannis Ritsos)

Gianrico Carofiglio (Bari – Italia -, 1961) es fiscal antimafia y escritor. Ha publicado ensayos y novelas. Estas últimas están casi todas traducidas a alguno de los idiomas que hablamos en territorio español, especialmente, las novelas de serie negra como Testigo involuntario (Testimone inconsapevole, 2002) y  A ulls clucs (Ad occhi chiusi, 2006). También es autor de obras de ensayo de tipo jurídico y político-ético. A este último género pertenece La manumissione delle Parole, publicado por Rizzoli (2010) y aún no vertida a ningún idioma constitucional español, que he tenido el placer de leer en estos días de verano algo caluroso, incluso a los pies de las Dolomitas. Aprovecho, pues, para hacer algunas aportaciones sobre esta obra y copiar literalmente algunas de sus ideas.

Carofiglio fundamenta el argumento de sus reflexiones en un principio: el lenguaje es la característica única y distintiva del hombre. El lenguaje establece el desarrollo de la civilización y precisa el límite de sus avances. La palabra está íntimamente conectada con el conocimiento, con la acción y con la construcción de la realidad y las relaciones que las personas establecemos y experimentamos cada día. La importancia de las palabras no es solo simbólica y tienen una función implícita y explícita.

Dice Carofiglio: “La razón de este libro – política, literaria y ética, a la vez – se encuentra en la exigencia de encontrar maneras de dar sentido a las palabras: y, por tanto, para intentar dar sentido a las cosas, a las relaciones entre personas, a la política entendida como una categoría noble del quehacer colectivo”.

La palabra representa el universo de nuestro conocimiento, delimitando las cosas de las que podemos hablar y que somos capaces de comunicar a nuestros semejantes. La idea de una relación meramente causal entre palabra y conocimiento, en la cual la primera condiciona al segundo, fue expuesta en 1956 por Edward Sapir y Benjamín L. Whorf, de los que Carofiglio se muestra deudor al asumirla como parte importante de sus reflexiones.

Pero, las palabras son también actos, decir es siempre un acto, como sugiere John L. Austin en su teoría de los actos lingüísticos. El lenguaje desarrolla una función “performativa”: crea la realidad, hace y deshace las cosas. Según Austin la palabra “performativo” tiene como significado que algo “por el mismo hecho de ser nombrado se convierte en acción”.

En definitiva, la disponibilidad y el uso de determinadas palabras nos anima a pensar de una manera y no de otra, por ello es muy amplia la cantidad de palabras que conocemos y nos arriesgamos a usar diariamente. El número de palabras que cada uno posee marca la calidad de su vida, sea en la dimensión privada, sea en la pública. Y es concretamente en esta última en la que Carofiglio encuentra un mayor poder para la palabra: “El número de palabras conocido y usado es directamente proporcional al grado de desarrollo de la democracia. Pocas palabras y pocas ideas, poca posibilidad de democracia. Cuantas más palabras se conocen y usan mayor posibilidad de diálogo político y, por ende, de vida democrática”.

Dicho de otra manera, en ningún otro sistema de gobierno como en la democracia las palabras son importantes, dado que en ésta adquieren gran importancia la discusión, el intercambio de ideas y el razonamiento. Sostiene Carofiglio que, en nuestros días, la naturaleza y el nivel de calidad de la palabra en la vida pública han sufrido una mutación profunda, en sentido negativo y reductivo: la pobreza cuantitativa y cualitativa de las palabras que se utilizan hoy en el espacio público constituye la razón de fondo de la escasa calidad de nuestra democracia y genera una imposibilidad de ofrecer a los ciudadanos igualdad, libertad y autorrealización.

Escribe: “Más allá de la racanería y la banalización, el uso mecánico de la lengua en la política oculta un fenómeno muy grave, inquietante y peligroso: un proceso patológico de conversión del lenguaje a la ideología dominante. Un proceso que se realiza mediante la apropiación, la manipulación y el uso abusivo de palabras clave del léxico político y civil”. Pensemos, añado, por ejemplo, en el uso actual de la palabra libertad en la terminología política; quién la usa principalmente y para qué la usa.

Carofiglio sostiene que la usurpación del lenguaje, su empobrecimiento y la modificación del significado de las palabras puede encontrarse fácilmente en los medios, en la producción literaria y, sobre todo, en la vida política y civil. De manera particular, analiza el caso de algunas palabras como democracia, libertad, pueblo y amor. Palabra esta última que desde la esfera más estrictamente privada e íntima ha pasado a formar parte del léxico público y político, sufriendo un cambio de sentido y de efectos hasta llegar a prostituirse.

Con todo, entre las palabras que Carofiglio considera que han sufrido una mayor usurpación se encuentra el término “elección”. Es, posiblemente, la palabra que mejor representa la relación entre calidad del lenguaje y realidad democrática. La posibilidad de elección es quien asegura la libertad a las personas. Pero en el momento en el que un sistema social, político o mediático, reduce la posibilidad de elección están reduciendo la posibilidad de gozar de la libertad, provocando la alteración del sentido profundo de la elección.

lunes, 1 de agosto de 2011

La rumba de la FP

El pasado día 30 de julio se publicaron en el BOE los reales decretos que establecen “las enseñanzas mínimas” correspondientes a la ESO y “la ordenación general de la formación profesional del sistema educativo”. Estoy en proceso de asimilación de ambas normas (leer y pensar en agosto se hace duro incluso para los jubilados, debe ser a causa del hábito anual acumulado durante tantos años). Cuando haya acabado de hacerlas mías, les dedicaré otra(s) entrada(s). Mientras tanto, y paralelamente, leo el artículo que me envía Eduardo Rojo:

“Economía/Laboral.- El Gobierno estudia un sistema para que los jóvenes se formen en las empresas a cambio de un salario”, que, entre otras cosas, dice: “El ministro de Trabajo e Inmigración, Valeriano Gómez, ha anunciado, en una entrevista con Europa Press, que el Gobierno está trabajando con los agentes sociales en el diseño de un sistema dual que permita a los jóvenes de 20 años o más formarse y trabajar al mismo tiempo en una empresa a cambio de un salario, medida que podría beneficiar en torno a medio millón de personas. Se trataría, según el ministro, de un modelo "estable", parecido al alemán, que alternaría empleo y formación, de manera que los jóvenes acogidos a este sistema pasarían un tiempo a la semana en una empresa y otra parte del tiempo, formándose. Gómez ha explicado que lo importante es que el sistema que se acabe diseñando no compita con el sistema de formación profesional (FP) reglado existente, pues, además de ser un error, sería "contraproducente" (Europa Press).


Proclamo mi afecto por Valeriano Gómez, sin embargo creo que, en el tema que nos ocupa se apunta, a “la rumba del cha-cha-cha, la que todos quieren bailar”. Espero que no sea necesario aplicarle los versos de Beny Moré: “Que lío yo me busqué / con eso de la morumba (¿de la FP?) / quieren que yo baile rumba / y la rumba yo no la sé”. ¿La sabe o no la sabe? Bien, de entrada, pongámoslo en duda.

En el marco de un discurso ponderado, sus declaraciones contienen algunas concesiones al respetable: “un modelo estable parecido al alemán” (sobre este modelo escribí anteriormente en este mismo blog). Es lo que le gusta oír al empresariado. Si los alemanes son buenos en muchas cosas (sobre todo, acumulando deuda española, eso les fascina) también ha de serlo su sistema de formación profesional. Sin embargo, me temo que en este caso por concesión a la parte social, “lo importante es que el sistema que se acabe diseñando no compita con el sistema de formación profesional reglado…”. Es decir, el sistema dual alemán a la española.

Después de años siendo diferentes a los del entorno, el Real Decreto 395/2007, de 23 de marzo, por el que se regula el subsistema de formación profesional para el empleo, vino a acabar con nuestra tradicional división de la formación profesional en tres subsistemas (reglada, ocupacional y continua) y los redujo a dos (para el empleo e inicial - ¿ésta no emplea? -). No era el paso definitivo, pero era un paso. Ahora tendremos una formación profesional dividida en cuatro subsistemas (suponiendo que el tradicional de tres haya sido finiquitado): ciclos formativos, “sistema dual”, formación para el empleo y los programas de cualificación profesional inicial. 

Bueno, quizá gozaremos de algún subsistema más pues: “Las Administraciones educativas podrán organizar programas formativos que tengan como objetivo formar a las personas mayores de 17 años cumplidos en el año de inicio del programa, que abandonaron prematuramente el sistema educativo sin ninguna cualificación profesional, para facilitar su acceso a una actividad profesional concreta, adaptada a las necesidades del sector productivo y del entorno, así como facilitar la empleabilidad y la obtención de un título de formación profesional” (artículo 28 del Real Decreto 1147/2011, de 29 de julio, por el que se establece la ordenación general de la formación profesional del sistema educativo).

Con todo, el problema no es cuántos subsistemas tendremos (creo que, cuantas más oportunidades disfruten las personas, mejor). La cuestión es que algunos de los subsistemas que se plantean generan dudas.

Centrándome solo en las palabras del Ministro a la agencia de difusión de noticias citada, me quedo algo perplejo por el contenido de la propuesta: ¿el cacareado sistema dual solo a partir de los 20 años?, ¿a qué edad empezarán a hacerse maduros socioeconómicos los jóvenes que opten por esta vía?, ¿el Estado podrá continuar financiando un sistema, como el dual que se propone, para todos los y las jóvenes mayores de 20 años, que, habiendo abandonado el sistema educativo o habiendo sido abandonados por él, elijan ese camino?, ¿o es que lo harán los empresarios?, y de la inclusión del “sistema dual” en la negociación colectiva, ¿qué?

Ahora están (y lo digo en tercera persona, porque estoy desde los años 80, cuando no era una moda) preocupados por el abandono y el fracaso escolar, aunque creo que más les preocupa quedar mal en la comparación con “los otros”. Considero que no se pueden buscar salidas coyunturales a problemas endémicos y que hay que buscar salidas estructurales.

Ando leyendo y releyendo la nueva legislación sobre la ESO y la FP y, como he dicho anteriormente, merecen escrito aparte. La verdad es que me está costando porque también tengo muy fresca la relectura de un texto de Mario de Andrade que, entre otras cosas dice:
“[…] Ya no tengo tiempo para reuniones interminables,
donde se discuten estatutos, normas,
procedimientos y reglamentos internos [...].
[…] Las personas no discuten contenidos,
apenas los títulos.
Mi tiempo es escaso como para discutir títulos […]”.

Continuará, pues.

La rumba de la FP

El pasado día 30 de julio se publicaron en el BOE los reales decretos que establecen “las enseñanzas mínimas” correspondientes a la ESO y “la ordenación general de la formación profesional del sistema educativo”. Estoy en proceso de asimilación de ambas normas (leer y pensar en agosto se hace duro incluso para los jubilados, debe ser a causa del hábito anual acumulado durante tantos años). Cuando haya acabado de hacerlas mías, les dedicaré otra(s) entrada(s).

Mientras tanto, y paralelamente, leo el artículo que me envía Eduardo Rojo. Extracto la parte que me interesa comentar: “Economía/Laboral.- El Gobierno estudia un sistema para que los jóvenes se formen en las empresas a cambio de un salario”, que, entre otras cosas, dice: “El ministro de Trabajo e Inmigración, Valeriano Gómez, ha anunciado, en una entrevista con Europa Press, que el Gobierno está trabajando con los agentes sociales en el diseño de un sistema dual que permita a los jóvenes de 20 años o más formarse y trabajar al mismo tiempo en una empresa a cambio de un salario, medida que podría beneficiar en torno a medio millón de personas. Se trataría, según el ministro, de un modelo "estable", parecido al alemán, que alternaría empleo y formación, de manera que los jóvenes acogidos a este sistema pasarían un tiempo a la semana en una empresa y otra parte del tiempo, formándose. Gómez ha explicado que lo importante es que el sistema que se acabe diseñando no compita con el sistema de formación profesional (FP) reglado existente, pues, además de ser un error, sería "contraproducente" (Europa Press).

Proclamo mi afecto por Valeriano Gómez, sin embargo creo que, en el tema que nos ocupa se apunta, a “la rumba del cha-cha-cha, la que todos quieren bailar”. Espero que no sea necesario aplicarle los versos de Beny Moré: “Que lío yo me busqué / con eso de la morumba (¿de la FP?) / quieren que yo baile rumba / y la rumba yo no la sé”. ¿La sabe o no la sabe? Bien, de entrada, pongámoslo en duda.

En el marco de un discurso ponderado, sus declaraciones contienen algunas concesiones al respetable: “un modelo estable parecido al alemán” (sobre este modelo escribí anteriormente en este mismo blog). Es lo que le gusta oír al empresariado. Si los alemanes son buenos en muchas cosas (sobre todo, acumulando deuda española, eso les fascina) también ha de serlo su sistema de formación profesional. Sin embargo, me temo que en este caso por concesión a la parte social, “lo importante es que el sistema que se acabe diseñando no compita con el sistema de formación profesional reglado…”. Es decir, el sistema dual alemán a la española.
Después de años siendo diferentes a los de nuestro entorno, el Real Decreto 395/2007, de 23 de marzo, por el que se regula el subsistema de formación profesional para el empleo, vino a acabar con nuestra tradicional división de la formación profesional en tres subsistemas (reglada, ocupacional y continua) y los redujo a dos (para el empleo e inicial - ¿ésta no emplea? -). No era el paso definitivo, pero era un paso. Ahora tendremos una formación profesional dividida en cuatro subsistemas (suponiendo que el tradicional de tres haya sido finiquitado): ciclos formativos, “sistema dual”, formación para el empleo y los programas de cualificación profesional inicial. Bueno, quizá gozaremos de algún subsistema más pues: “Las Administraciones educativas podrán organizar programas formativos que tengan como objetivo formar a las personas mayores de 17 años cumplidos en el año de inicio del programa, que abandonaron prematuramente el sistema educativo sin ninguna cualificación profesional, para facilitar su acceso a una actividad profesional concreta, adaptada a las necesidades del sector productivo y del entorno, así como facilitar la empleabilidad y la obtención de un título de formación profesional” (artículo 28 del Real Decreto 1147/2011, de 29 de julio, por el que se establece la ordenación general de la formación profesional del sistema educativo).
Con todo, el problema no es cuántos subsistemas tendremos (creo que, cuantas más oportunidades disfruten las personas, mejor). La cuestión es que algunos de los subsistemas que se plantean generan dudas.
Centrándome solo en las palabras del Ministro a la agencia de difusión de noticias citada, me quedo algo perplejo por el contenido de la propuesta: ¿el cacareado sistema dual solo a partir de los 20 años?, ¿a qué edad empezarán a hacerse maduros socioeconómicos los jóvenes que opten por esta vía?, ¿el Estado podrá continuar financiando un sistema, como el dual que se propone, para todos los y las jóvenes mayores de 20 años, que, habiendo abandonado el sistema educativo o habiendo sido abandonados por él, elijan ese camino?, ¿o es que lo harán los empresarios?, y de la inclusión del “sistema dual” en la negociación colectiva, ¿qué?
Ahora están (y lo digo en tercera persona, porque estoy desde los años 80, cuando no estaba de moda) preocupados por el abandono y el fracaso escolar, aunque creo que más les preocupa quedar mal en la comparación con “los otros”. Considero que no se pueden buscar salidas coyunturales a problemas endémicos y que hay que buscar salidas estructurales.
Ando leyendo y releyendo la nueva legislación sobre la ESO y la FP y, como he dicho anteriormente, merecen escrito aparte. La verdad es que me está costando porque también tengo muy fresca la relectura de un texto de Mario de Andrade que, entre otras cosas dice:
“[…] Ya no tengo tiempo para reuniones interminables,
donde se discuten estatutos, normas,
procedimientos y reglamentos internos,
sabiendo que no se va a lograr nada.
[…] Las personas no discuten contenidos,
apenas los títulos.
Mi tiempo es escaso como para discutir títulos […]”.
Continuará, pues.

lunes, 25 de julio de 2011

El artículo 128 de la Constitución española y la salida de la crisis

“1. Toda la riqueza del país en sus distintas formas y, sea cual fuere su titularidad, está subordinada al interés general.
2. Se reconoce la iniciativa pública en la actividad económica. Mediante Ley se podrá reservar al sector público recursos o servicios esenciales, especialmente en caso de monopolio, y asimismo acordar la intervención de empresas cuando así lo exigiere el interés general”.

Leyendo una entrada del blog del profesor Juan Torres he encontrado esta cita del artículo 128 de la Constitución española. Su lectura le deja a uno perplejo (y le recuerda que se hace mayor porque olvida cosas sabidas). ¿Por qué la perplejidad? Sencillamente, porque en ningún momento se ha oído citar dicho artículo a “sabios” de cualquier laya (políticos, periodistas, economistas, politólogos, tertulianos, sacerdotes varios, y, mucho menos, a los banqueros o al mostrenco presidente de la patronal española).

Su lectura me lleva a plantear algunas pocas, pero creo que suficientes, preguntas:
• ¿Por qué, en pro del interés general, no se ha aplica al pie de la letra el artículo 128 en los momentos actuales?
• ¿Por qué no se interviene y nacionaliza la banca y se crea una banca pública con los bancos y cajas desahuciados, en beneficio del interés general?
• ¿Por qué, en observancia del interés general, no se intervienen las entidades financieras que han alterado y continúan alterando artificialmente el precio de las cosas y aplicando la ley de la usura como principio de actuación?
• El terrorismo financiero que realizan “los mercados”, acosando a personas y países enteros, ¿no debe ser combatido en beneficio del interés general con la misma fuerza que se combaten otros terrorismos?
• ¿Por qué, en favor del interés general, no se actúa con dignidad y se hace pagar las consecuencias de la crisis a los banqueros, “cajeros” y otros mercaderes financieros que son los únicos responsables de la especulación que provoca “daños colaterales”?
• ¿Por qué, en acatamiento del interés general, no se impide a la banca la creación de deuda, es decir, de dinero, que es la base de su negocio y de su poder?
• En resumen, ¿por qué nuestros gobernantes no atacan la raíz de los problemas y, sometiéndose al interés general, acaban con el poder de las finanzas y con el empobrecimiento de la población?

A todas estas preguntas, los sabios aludidos y buena parte de nuestra sociedad acomplejada, interesada y aspirante a un pequeño “botín”, tiene respuestas varias. Todas ellas se resumen, más o menos, en frases y actitudes indignas, muchas de ellas invocando la democracia y la libertad. Se parapetan en un “no hay alternativa”. Con ello, eluden el debate, la búsqueda de las soluciones que existen y que cada día son aportadas por otros sabios críticos y más dignos que ellos. Lo cierto es que el camino que se ha escogido solo nos lleva a un mayor desastre.